sabato 6 marzo 2021

BUON COMPLEANNO MOSTRO COVID

Non sarà come riaccendere l’interruttore. Quando tutto questo sarà finito non si tornerà semplicemente alla vita di prima. Non sarà possibile, perché l’impatto del Covid lascerà un segno profondo. Indelebile. Sul piano sanitario ma pure su quello sociale. Sulla scuola e sul lavoro. E perfino nella sfera delle emozioni, degli affetti.

Perché il virus ci ha colpito nel punto più nevralgico e fragile dell’esistenza, quello del contatto. Niente abbracci, niente carezze, niente baci, niente frasi sussurrate. Ci sta costringendo a stare a distanza, perfino nel momento della morte. Con le regole per i funerali. E con tante persone che se ne sono andate da sole, senza neppure il conforto di una mano sfiorata.

Il primo anniversario è sempre occasione di bilanci e, dopo un anno di pandemia, ci troviamo a fare i conti con un’emergenza ancora in corso e tutt’altro che prossima al suo epilogo. I numeri dei contagi e dei decessi incutono terrore: siamo alla terza ondata e la situazione è ancora più grave della prima e della seconda; il proliferare di varianti del Covid-19 mette a serio rischio l’efficacia dei vaccini; la campagna vaccinale, presentata in pompa magna dal governo, si è rivelata un pallone gonfiato; ed è di tutta evidenza che le industrie farmaceutiche non si sono fatte sfuggire il lucroso affare e stanno provvedendo a anteporre i propri interessi alla salute collettiva. Nel capitalismo è il mercato a decidere chi curare e quando.

Quella sottovalutazione che ha aperto le porte al virus in Italia

Era il 2 febbraio del 2020 quando a Wuhan veniva consegnato il primo Covid hospital costruito appositamente per fronteggiare l’emergenza sanitaria. In Italia la Cina appariva lontana, il Sars-CoV-2  veniva visto come un problema che riguardasse solamente l’Asia orientale e di cui guardarsi solo se si fosse venuti in contatto con gente che provenisse da quel territorio. Una visione generale sbagliata della situazione ma che trovava giustificazione nel protocollo del ministero della Salute n.2302 emanato il 27 gennaio del 2020. Il documento infatti  prevedeva la possibilità di effettuare il tampone laringo faringeo solo “ per i casi sospetti” ovvero per quelle persone con “un’infezione acuta grave” con provenienza da “aree a rischio dalla Cina”. Sin dall’inizio è passato l’errato messaggio di un problema destinato a rimanere circoscritto nello stesso luogo in cui si era generato.


Ad alimentare questa convinzione anche gli esperti del settore scientifico e i politici che prendevano parte ai talk dei salotti televisivi. In queste circostanze si è sempre parlato di un problema che poco avrebbe intaccato l’Italia. Dalla superficialità all’isteria è stato un attimo. Dopo il primo caso di Codogno del 21 febbraio è arrivato anche il primo decesso a Vo. Da quel momento l’Italia, colta di sorpresa, si è trovata nel mezzo della pandemia senza gli appositi strumenti per combatterla.


Le falle delle misure adottate

Dal momento in cui la pandemia ha corso velocemente in Italia, il primo strumento necessario per conoscere chi fossero le persone contagiate e potenzialmente infette erano i tamponi. Ma quanti tamponi si facevano al giorno? Quanti ne venivano processati? Pochi. Un numero non sufficiente a rilevare una buona fetta dei casi di contagio. Soltanto alla fine della prima ondata l’Italia ha iniziato ad aumentare il numero dei tamponi quotidiani, ma è rimasta indietro con il sequenziamento del virus. Un’attività molto importante che permette di conoscere le varianti del Sars-CoV-2 e quindi la sua evoluzione con le conseguenze che ne derivano. Mentre Regno Unito, Nuova Zelanda e Australia  hanno da subito lavorato per sequenziare il coronavirus, l’Italia non ha investito in questo settore rimanendo molto indietro: “Fino a dicembre nel nostro Paese – ha dichiarato il professor Marco Falcone su il Giornale.it – è stato sequenziato solo l’1% dei virus”. Solamente nel gennaio del 2021 è stato aperto un apposito consorzio di laboratori per arrivare al sequenziamento del virus.


Il ritardo nei tamponi e nel sequenziamento, non ha permesso un deciso tracciamento dell’epidemia. E così, nel corso della prima ondata, invece di adottare azioni per combattere il virus partendo dalle basi, è stato semplicemente alzato uno scudo di difesa attraverso il lockdown: una volta finito, la situazione è tornata come prima o peggio. L’estate trascorsa ha lasciato tregua per pensare alle prossime misure di difesa da adottare in vista della preannunciata seconda ondata: se nella prima gli errori potevano essere giustificati da una situazione sottovalutata ma comunque nuova e grave, così non poteva essere nel suo ritorno in autunno. I fatti hanno invece dimostrato che l’Italia non ha imparato dagli sbagli commessi.


L’esempio dei monoclonali

C’è un ramo della ricerca di farmaci anti Covid che rappresenta l’emblema di come si è mossa l’Italia in questi faticosi 12 mesi. Riguarda l’uso degli anticorpi monoclonali: . L’Italia è in prima linea nella produzione. A Latina infatti è presente la Bsp Pharmaceuticals, una società che opera anche per conto della Eli Lilly, azienda farmaceutica statunitense tra le più importanti nella produzione di monoclonali. Anche la tecnologia e la ricerca italiana quindi è arrivata con largo anticipo ad intuire le possibilità di questi farmaci.


È stato il sistema Paese invece ad arrivare con grave ritardo: “Il dottor Guido Silvestri – ha ricordato Matteo Bassetti – era riuscito grazie alla sua interlocuzione con chi produce gli anticorpi ad avere 10mila dosi disponibili già nello scorso mese di ottobre”. Il via libera per l’uso dei monoclonali è arrivato però soltanto il 3 febbraio, quando il comitato scientifico dell’Aifa, l’Agenzia Italiana per il Farmaco, ha dato il disco verde. L’iter sui monoclonali è soltanto uno dei tanti aspetti riguardanti l’attuale emergenza sanitaria. Ma che ben rappresenta il (mancato) funzionamento del sistema Italia nel primo anno di pandemia: ritardo nelle decisioni, incapacità di mettere a sistema ricerche e conoscenze, lentezza degli apparati burocratici. Sono tutti elementi questi che hanno contribuito a condannare a una sorta di affanno perenne il nostro Paese.


Potremmo già fermarci qui, perché tutto il resto è in subordine: la vita, intesa sia come vita propriamente detta (un corpo con delle funzioni biologiche), sia come salute fisica e qualità dell’esistenza, è la cosa più importante, la priorità: un uomo morto è morto, non può più fare niente; diversamente, un disoccupato, senza reddito, può ancora vivere e avrà davanti a sé delle possibilità, come quella di organizzarsi per combattere il sistema economico e sociale che l’ha ridotto in quelle condizioni.

Se abbiamo ben compreso e interiorizzato questo concetto, che potrebbe sembrare banale e scontato, in altre parole se siamo riusciti a separare l’imprescindibile, solenne e definitivo elemento «vita» dai ricatti e dalle imposizioni del capitalismo, sistema putrefatto che vogliono farci credere definitivo, allora siamo pronti per comprendere non solo quali insegnamenti trarre da questo drammatico anno di pandemia di Covid 19, ma anche quale strada imboccare per uscire (vivi) da questo incubo.


Le lezioni da non dimenticare

Ammesso che ce ne sia ancora bisogno, la pandemia di coronavirus ha offerto alle masse popolari la dimostrazione empirica della crudeltà del sistema. È veramente difficile dare un ordine d’importanza a quelli che sono ?

Ci proveremo comunque, partendo dall’insegnamento più importante.


La lezione della Val Seriana

L’unica vera lezione che possiamo e dobbiamo imparare dopo un anno di pandemia è che il capitalismo è incompatibile con la vita dell’umanità e con la sopravvivenza del pianeta. Per la classe dominante il profitto vale più della vita dei lavoratori: l’esempio più duro e drammatico lo abbiamo avuto in tutta la sua chiarezza con le morti della Val Seriana, dove un’intera generazione è stata decimata, non semplicisticamente dal Covid-19, ma dalle scelte scellerate delle autorità bergamasche che, su pressioni di Confindustria, hanno gettato in pasto al Covid migliaia di persone. Se a Bergamo è andato in scena l’episodio più crudo di questa strage di Stato, a livello nazionale il dramma ha assunto dimensioni simili. Se è vera — e per noi lo è — la premessa di quest’articolo che pone la vita come elemento prioritario della massima importanza, ne consegue che, per difendere la vita da un virus che circola con le persone e le contagia quando queste si avvicinano, sia necessario impedire la circolazione e gli assembramenti di ogni tipo. Non esistono alternative. Punto. Tutto il resto corrisponde a esigenze economiche imposte dal ricatto cui ci pone questo sistema criminale. Se a oggi siamo ancora nel pieno dell’emergenza, lo dobbiamo al fatto che la borghesia non ha voluto che qualcosa ostacolasse i suoi profitti, mandando milioni di lavoratori a produrre una ricchezza che in un sistema socialista sarebbe servita al sostentamento economico dei lavoratori e di tutte le fasce colpite dal lockdown.



Le scuole parcheggio per i figli

A conferma della preminenza del profitto che impone agli operai di andare in fabbrica, costi quel che costi, a produrre, abbiamo come logica conseguenza la didattica in presenza imposta ai loro figli studenti e ai lavoratori della scuola. Una presenza tassativa per le scuole elementari e medie che hanno la funzione di parcheggio per i figli dei lavoratori. Per le scuole superiori, al netto di qualche residuo di didattica a distanza, a gennaio si è tornati in presenza, per la gioia del virus che ha continuato a diffondersi indisturbato nelle classi pollaio e nei mezzi colmi del trasporto pubblico locale.

In questi mesi siamo stati posti di fronte a due opzioni contrapposte: didattica in presenza o didattica a distanza. Ma questa domanda è truffaldina e fuorviante, poiché elude la causa (la pandemia) che porta in campo l’esigenza di evitare attività scolastiche in presenza. Se dovessimo semplicemente scegliere tra una scuola in presenza e una scuola a distanza, parrebbe quasi scontata la scelta della presenza, soprattutto per le donne costrette da questa società all’accudimento dei figli e alle faccende domestiche; è un po’ come scegliere se guidare un’auto sportiva nella realtà o tramite un videogame: tutti vorrebbero provare l’emozione di guidarla nella realtà, magari nelle piste di un autodromo. Ma se vi dicessero che alcune auto, non si sa quali, hanno un difetto sull’impianto frenante e c’è il rischio che non frenino, cosa preferireste?

Tornando alla premessa iniziale l’unica risposta possibile che può garantire la vita e la salute è la didattica a distanza, perché il vero dilemma non è tra didattica in presenza o a distanza, ma tra didattica sicura o a rischio di contagio. La scuola odierna, col retaggio di decenni di tagli draconiani da parte di tutti i governi succedutisi nell’ultimo mezzo secolo, è irrimediabilmente fatiscente e pericolosa; non è possibile, nei tempi necessari, implementare alcuna misura di messa in sicurezza degna di quel nome. L’unica alternativa è la Dad, un’alternativa che palesa la sua connotazione di classe: solo nelle abitazioni di certe famiglie ci sono spazi adeguati, connessioni e computer efficienti; in quelle delle famiglie povere non c’è niente di tutto ciò.

Donne, immigrati e lgbt

Sgomenta la notizia che dei 101.000 posti di lavoro perduti nel mese di dicembre 2020, 99.000 erano quelli di donne lavoratrici: basterebbe solo questo a rappresentare le dimensioni della discriminazione che devono subire le donne. Le lavoratrici percepiscono salari più bassi rispetto ai loro colleghi uomini e spesso hanno contratti precari, part-time o lavorano in nero. Questo gap salariale e contrattuale, in periodi di crisi economica, porterà migliaia di donne alla disoccupazione, le priva di una propria fonte di reddito e le espone al ricatto economico dei loro aguzzini; restano relegate nelle loro prigioni domestiche, spesso vittime di violenze, come le cronache quotidiane ci raccontano.

L’oppressione è un problema di tutti: non solo delle donne o di altri settori oppressi della società come immigrati o appartenenti alla comunità lgbt, poiché il capitalismo che sfrutta i lavoratori è lo stesso che alimenta il maschilismo, la xenofobia e il razzismo per dividere la nostra classe, indebolirla e dominarla. Il capitalismo è il campo fertile in cui queste oppressioni affondano le radici: un campo continuamente seminato e coltivato dalla borghesia.

Il comitato d’affari della borghesia e le sue responsabilità

Quali sono le responsabilità del governo nella gestione della pandemia? Proviamo, a mero titolo di esercizio, a giudicare il governo con i parametri della sua stessa giurisprudenza penale, che classificano la gravità di un omicidio sulla base del fattore psicologico dell’assassino. Di qui le tre grandi famiglie della natura dei reati: la colpa, la preterintenzione, il dolo.

La colpa è negligenza, imperizia o imprudenza; il classico esempio di omicidio colposo lo si ha negli incidenti stradali, magari perché il guidatore aveva alzato un po’ il gomito, oppure era distratto dal cellulare; un incidente, appunto, dovuto a negligenza e imperizia: non era minimamente presente nella mente del reo l’intenzione di uccidere. Domanda: possiamo dire che il governo, decidendo di tenere aperto tutto il mondo del lavoro e quasi tutto il mondo scolastico, con milioni di lavoratori e studenti ammassati per ore in fabbriche, uffici, scuole, autobus, metropolitane e treni, non abbia compreso che ci sarebbero state decine di migliaia di morti? No. Non siamo di fronte a delle menti geniali, questo è evidente, ma è altamente improbabile che le conseguenze drammatiche delle scelte governative siano sfuggite ai governanti.

La colpa cosciente si ha quando il reo è consapevole della potenziale letalità della sua azione, ma crede di poter tenere sotto controllo la situazione evitando conseguenze mortali; è il caso del lanciatore di coltelli al circo: sa che ciò che sta facendo è potenzialmente letale, ma è convinto di controllare la situazione e di non uccidere nessuno. Domanda: possiamo dire che il governo abbia agito nella convinzione di mantenere tutto sotto controllo senza conseguenze mortali per nessuno? No. Non possiamo dirlo, poiché è palese che ha omesso di arginare la pandemia e questa è divenuta incontrollabile: i virus non sono in grado di controllarsi da sé.

Che fare?

Quella che stiamo vivendo oggi è, sotto ogni punto di vista, una nuova realtà caratterizzata da una nuova forma di normalità con la quale dovremo probabilmente convivere ancora per molto tempo. Questa nuova realtà è fatta di mascherine, di tamponi, di quarantena, ma anche, finalmente, di vaccini e di metodologie di cura sempre più efficaci. A questo proposito non si può non ringraziare ogni singola persona impegnata in prima linea nella lotta contro il Covid; in primis medici, infermieri e tutti gli operatori sanitari che sono i veri eroi moderni che abbiamo visto sfiniti e segnati sul volto, ma mai domi oppure arrendevoli. 

In conclusione, possiamo riepilogare le grandi lezioni che abbiamo appreso in quest’anno di pandemia: nel capitalismo la vita umana è sacrificabile sull’altare del profitto; l'unico modo per fermare il virus, in attesa di cure efficaci e vaccinazioni, era quello di arrestarne la circolazione, ma questo avrebbe ostacolato la macchina del profitto; le vaccinazioni sono nelle mani del capitalismo farmaceutico che alla salute pubblica antepone i profitti; le conseguenze dei tagli alla sanità pubblica hanno prodotto migliaia di morti; l’impianto retorico della ripresa in sicurezza del lavoro: una menzogna che sta costando, tuttora, migliaia di contagiati e centinaia di morti ogni giorno; le scuole aperte, con la funzione di non creare intralci e con lo scopo di dare una copertura ideologica alla narrazione del «tutto sotto controllo», sono state la maggiore fonte di contagio e di focolai; donne, disabili, immigrati e lgbt hanno pagato il prezzo più alto in questa crisi sanitaria.

Ogni momento che abbiamo vissuto dal marzo 2020 e che vivremo nei prossimi mesi rimarrà impresso nelle menti di ognuno di noi e lo racconteremo ai nostri figli e ai nostri nipoti. Abbiamo imparato a stare lontani per proteggerci a vicenda, abbiamo imparato la bellezza di un sorriso fatto con gli occhi, abbiamo sentito la mancanza di un abbraccio, abbiamo rimpianto anche la noia di fare tutti i giorni la stessa strada per lavoro e abbiamo riscoperto il valore di passare anche solo pochi minuti in compagnia di un amico.

Abbiamo imparato tutto questo, ma non ci siamo dimenticati quanto fosse bella la realtà prima del Covid, non ci siamo dimenticati quanto fosse bello sedersi sulla poltrona di un teatro a ridere o a piangere insieme a decine di sconosciuti amici, non ci siamo dimenticati della passione di un evento sportivo vissuto da protagonista sugli spalti fino a uscire senza voce; non ci possiamo e non dobbiamo dimenticare la bellezza delle sensazioni che tutti questo ci ha dato e che sono certo, molto presto, torneremo a vivere avendo fiducia nella scienza e in tutte le persone che in ogni istante si stanno impegnando affinchè la libertà, che fino al 2019 era del tutto normale ma oggi è tanto agognata, torni ad essere la realtà di vita di ognuno di noi.

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