La mattina dopo, a schede tutte scrutinate, tirare le somme è un dovere. L’Emilia Romagna è rimasta al Pd e Stefano Bonaccini, rovesciando le previsioni della vigilia, ossia dei sondaggi che davano Salvini e la deriva fascioleghista trionfante.
La “marea nera” – o più banalmente la solita destra conservatrice italica, immutabile da sempre sotto il frenetico susseguirsi di liste dai nomi più diversi (c’era persino un “Popolo delle libertà” ad affiancare “Forza Italia”) – ha invece prevalso in Calabria, sostituendo un’amministrazione targata Pd travolta dalle inchieste sulla ‘ndrangheta (che deve aver perciò velocissimamente cambiato cavallo…).
Il “voto nazionale” era però concentrato in Emilia Romagna, ed è su questo risultato che si deve concentrare l’attenzione per ricavarne indicazioni generali.
Intanto i numeri.
Stefano Bonaccini ha preso il 51,4%, Lucia Borgonzoni il 43,68. Il candidato grillino, Simone Benini, il 3,46.
Dietro, tutti molto sotto l’1%.
Torna il “bipolarismo obbligato”
La prima considerazione è che finisce qui la breve stagione del “tripolarismo”, segnata dalla presenza dei Cinque Stelle. Si torna allo schema bipolare, fondato sulla paura. In questo, la separazione ridicola dei due schieramenti in una destra e una “sinistra” è totalmente funzionale all’imprigionamento del voto popolare. Esattamente come il “poliziotto cattivo” e quello “buono” in questura: entrambi “lavorano” per mandarti in galera, ma si dividono le parti perché tu ti dimentichi che prendono lo stipendio dallo stesso ufficio: “dammi il voto, altrimenti faccio entrare quell’altro…”.
La prova? Sta nella differenza evidente tra voti ai partiti che appoggiavano le diverse liste. Bonaccini ha avuto il 3,2% in più dei voti alle liste, mentre la Borgonzoni quasi due punti in meno di chi l’appoggiava. E così anche tutti i candidati alle loro spalle.
Che significa? Che una quota non piccola degli elettori ha praticato il “voto disgiunto” – possibile nella “originale” legge elettorale di questa regione, ma che richiede comunque un qualche grado di “sofisticazione” politica – votando per la “propria” lista e contemporaneamente per un candidato presidente diverso. Ossia Bonaccini.
Una pratica che si giustifica solo con la paura che vincesse l’avversaria, in teoria, e Matteo Salvini in pratica.
E’ un clima pesantissimo che si è respirato durante tutta la campagna elettorale. I compagni che raccoglievano le firme per poter presentare Potere al Popolo l’hanno vissuto in presa diretta. Molta gente lo diceva ai banchetti: “compagni, la firma ve la do volentieri, ma il voto no; non voglio che vinca la Lega”. La conferma è poi arrivata dalle urne: i voti per Marta Collot e PaP sono stati meno delle firme raccolte per strada, una per una!
Se questo è – e lo è – il meccanismo stritolante del “bipolarismo obbligato”, allora l’analisi politica si deve staccare dalle solite considerazioni (“il programma”, “la scelta del candidato”, “i toni usati”, “le alleanze”, “le divisioni”,ecc) e esaminare il “dato strutturale”: in questo schema non c’è spazio elettorale autonomo per nessuna forza politica alternativa.
E’ la situazione che si vive da sempre nei paesi anglosassoni (Gran Bretagna e Usa in testa), dove il sistema elettorale “maggioritario” garantisce all’establishment – al “partito degli affari” – di controllare gli spostamenti d’umore della popolazione con una “alternanza” che non cambia nulla, se non la retorica e “l’arredamento”.
Il primo stop serio di Matteo Salvini
Il “poliziotto cattivo” ha preso la sua prima musata elettorale consistente, ma ciò è avvenuto nel territorio a lui meno favorevole. Quindi non ne esce “mazzolato”, ma solo ridimensionato. Paradossalmente, resta “utile” al sistema affaristico perché la sua presenza volgare e debordante “spaventa” quanto basta a far confluire gli spaventati “anche su una sedia vuota”, ovviamente ben controllata. E’ la condizione strategica che ha dissolto negli anni “la sinistra”, sempre pronta al sacrificio per “fermare la destra”, fino a scomparire senza averla mai fermata. Anzi…
Dunque, viene sconfitta la Lega di Salvini e Borgonzoni e si afferma, senza avere alla sua sinistra una voce critica e sociale, un nuovo centrosinistra liberale (e liberista) che fa riferimento non certo al PCI della vecchia “Emilia rossa“, ma semmai alla sottile Emilia rossa sempre più convinta delle ragioni dell’economia di mercato, con il mondo delle cooperative al suo fianco, sostenuta da appelli al voto di importanti esponenti dell’antifascismo e della cultura, visto il pericolo sovranista che, in tutta evidenza, era e rimane tutt’ora reale.
Al dunque, la “classe dirigente” residua preferisce l’”usato sicuro”, la vecchia logica democristiano-affaristica, capace di mediare ungendo, di far fare soldi senza troppa tracotanza, di bastonare chi lavora fingendo di preoccuparsene.
Se la situazione complessiva dovesse peggiorare di molto, però, anche questo schema “rassicurante” di governo potrebbe venire meno, aprendo davvero la strada ad avventurieri pericolosi.
Ma per ora il centrodestra, se vuole assumere davvero il ruolo del “governo rassicurante”, deve diventare più moderato. E i vecchi marpioni di Forza Italia – scomparsa in Emilia Romagna, ma prevalente sulla Lega in Calabria – hanno giù cominciato a cantare la canzoncina sulla “destra europeista” che può fare meglio di quella brubrù.
Siccome Salvini è fondamentalmente un attore che “deve” occupare la scena, non dubitiamo del fatto che i suoi ”registi” stiano già apportando le dovute rettifiche al copione che dovrà recitare.
Il ruolo delle Sardine
I ringraziamenti arrivati loro da Zingaretti & co. confermano l’impressione che se ne era avuta fin dall’inizio. Lungi dall’essere un fenomeno “spontaneo” questo “movimento” è stato fatto nascere per ricucire in parte lo strappo tra “palazzo” e società, rispolverando la funzione dei “corpi intermedi” (sindacato, associazionismo, movimenti d’opinione, ecc) che proprio le politiche neoliberiste assunte dal “centrosinistra” avevano contribuito ad annullare.
E’ indubbio, comunque, che sul piano elettorale questa “movimentazione sardinista” abbia avuto un ruolo importante, utilizzando al meglio la paura del “poliziotto cattivo” per convogliare consensi verso quello “buono”.
Chi invece sperava di trovarvi “idee per un’alternativa” dovrà velocemente riposizionare altrove i suoi desideri. Se ne ha…
La fine dei Cinque Stelle
non deve sfuggire all’analisi il completo fallimento del progetto del Movimento 5 Stelle se lo si osserva partendo dalla sua nascita: in un decennio è cresciuto come speranza rivoluzionaria, di capovolgimento dei disvalori di una politica corrotta, tutta votata a mantenere i propri posti di potere e i lacci e laccuioli che aveva con larga parte dell’economia nazionale (e non solo), fino a diventare opposizione parlamentare di grande peso.
Da lì è emerso lo slancio ricco di anatemi contro le istituzioni, lo stigma sui partiti, tutti brutti, sporchi e cattivi, e la scrittura di una immacolata concezione politica di un movimento che doveva necessariamente essere altro rispetto a tutto ciò che lo circondava. In ciò ha preso a prestito una delle caratteristiche dei comunisti: essere per l’appunto completamente differenti dal resto del panorama politico e affermare così l’alterità sociale che si è sempre inteso rappresentare in Parlamento e nelle istituzioni locali.
Alla prova del governo, prima con la Lega e poi con il PD e Renzi, il Movimento 5 Stelle ha dovuto dismettere il suo isolazionismo, quello che poteva concedersi dai banchi dell’opposizione, e ha finito col logorarsi non creando una classe dirigente che fosse in grado di reggere il pari con consumati politici tanto del centrosinistra quanto delle vecchie destre berlusconiane e di quelle fintamente nuove del sovranismo tutto italiano.
I Cinquestelle hanno provato la tattica del camaleonte, ma gli adattamenti non giovano all’essere integerrimi e inconfondibili rispetto al resto del mondo politico se con quel mondo si deve scendere a patti ed essere prima “di destra“, approvando i decreti-sicurezza e appoggiando le politiche leghiste sulla spinta del ribaltamento dei rapporti di forza interni all’esecutivo dopo il voto europeo dello scorso anno; per poi assumere una connotazione più “di sinistra” (recalcitrante comunque Di Maio), sostenuta da un Beppe Grillo che non vede altro ormai se non una collocazione nel campo progressista.
Magari non sarà ancora la morte definitiva del M5S: sopravviverà elettoralmente grazie ad un suo “zoccolo duro“. Tutti, più o meno, ne hanno uno. Ma è fuori da ogni dubbio che lo squilibrio tra la rappresentanza parlamentare e il consenso che avrebbero oggi nel Paese se si votasse è talmente enorme da rendere impensabile che il governo Conte II arrivi fino alla fine della legislatura andando ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica con questi rapporti di forza, ormai superati dai fatti, nelle due Camere e in molti consigli regionali.
Chi sconfigge veramente le destre?
Il punto è semmai proprio questo: che a battere la destra sovranista non è una sinistra comunista, antiliberista, di alternativa. A farlo sono forze che governano anche a Roma, che condividono il punto di vista del mercato, dell’imprenditoria sul sistema anti-sociale da applicare e da mostrare come contenimento delle ingiustizie, come tutela del lavoro, come rete di protezione che nemmeno lontanamente somiglia al vecchio stato-sociale della cosiddetta “prima repubblica“.
Sono tutte forze che fino ad oggi si sono proposte in alternanza alle destre dentro ad un sistema elettorale maggioritario che oggi i commentatori notturni, tra gechi e vampiri neri che fuggono dai muri e negli anfratti dei boschi, vorrebbero riesumare per consegnare al Paese la speranza di ritrovare un campo politico apparentemente progressista, fatto di bei valori democratici e antifascisti e, voltata la medaglia, nuovamente liberista in economia.
Proprio l’alternanza, al posto dell’alternativa, è stata la culla di una accettazione di competizione con forze che avrebbero invece dovuto non avere alcun riconoscimento di legittimità nel proporsi alla guida del Paese o degli enti locali: a partire dal lontano 1992, dal revisionismo storico operato sulla Resistenza e sulla Seconda guerra mondiale in Italia, è venuto prepotentemente avanti anche un revisionismo politico di cui la destra di Fiuggi prima e sovranista poi ha approfittato per farsi largo nella società italiana, sostenuta da tutta una imprenditoria che aveva buon gioco a mettersi nelle mani di avversari di quegli eredi del PCI ancora troppo pregni del loro passato.
Il regime dell’alternanza, quindi l’altalena di governo tra centrosinistra e centrodestra, non può essere un luogo di rinascita della sinistra di alternativa e di classe. Se si ritiene che i comunisti debbano avere il ruolo che fu del Partito dei Comunisti Italiani, ossia diventare “la sinistra del centrosinistra“, allora si afferma il principio di una subalternità non soltanto ideologico-politica ma anche tattica: si mette a disposizione una buona fede, una buona volontà nel cambiare lo stato di cose presente, i rapporti di forza sociali partendo da un punto di debolezza, da una condizione di inferiorità numerica manifesta e quindi si relega la sinistra ad una condizione di stampella del nuovo centrosinistra vittorioso contro il leghismo sovranista.
Ma niente di più di questo può venire dalla politica frontista moderna, dal considerare “campo di azione” politica e sociale il centrosinistra in cui per lungo tempo abbiamo sperimentato cosa significhi convivere con forze moderate tanto di sinistra quanto di centro.
Può il centrosinistra sconfiggere veramente le destre? Laddove per “sconfitta” si deve intendere il superamento della considerazione popolare delle destre come ancora di salvezza sociale, come parte politica cui affidarsi per vedere riemergere la giustizia sociale, diritti calpestati dal liberismo e dalla logica spietata del mercato.
Non si può continuare a ritenere “sconfitta delle destre” soltanto la vittoria elettorale in questa o quella regione d’Italia, in questo in quell’altro comune della Repubblica.
La “sconfitta delle destre” deve avvenire prima di tutto sul terreno economico e questo può essere fatto se si propone al moderno mondo dei lavoratori sfruttati a vari livelli, al mondo dei precari e dei disoccupati, a tutti coloro che sopravvivono in uno stato di perenne indigenza un modello opposto rispetto a quello del liberismo e non una sua versione edulcorata, un surrogato di socialismo imbevuto di logiche di mercato, di accettazione di una pace sociale permanente che concede di sposare i valori costituzionali e antifascisti, i diritti civili, e in tutto questo si mostra “liberale“, mentre poi diviene liberista quando deve mettere mano ai conti pubblici per far spazio agli interessi privati.

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